mercoledì 11 giugno 2008

I piedi per terra

Un cartello di sei metri dice "è tutto intorno a te"
ma ti guardi intorno e invece non c'è niente.

Lorenzo Cherubini, Fango

Da qui, tanto per non perdersi di vista l'essenziale.

martedì 10 giugno 2008

Beato te che viaggi per lavoro

Prendete una multinazionale, settore comunicazione.
Le ormai vostre (si fa per dire) 100 sedi al mondo imparerete subito, per brevità, a chiamarle "il network". Le (sicuramente) vostre 40 ore settimanali di lavoro diventeranno altrettanto sicuramente 50, ora più ora meno, a parte quando sarete all'estero, che è come lavorare sempre. Le discussioni sull'alleggerimento della tassazione degli straordinari tuttavia voi le guarderete con elegante distacco, in quanto il network non paga straordinari, punto.
E' opportuno che non siate cagionevoli di salute, in quanto ammalarsi di frequente non dà un bel segnale all'azienda, e in quel caso vi potete scordare sin d'ora la carriera. Quando, offrendovi una congrua sommetta di denaro (per voi), ma del tutto insignificante (per il network medesimo), vi licenzieranno con il vostro consenso, è possibile che l'ufficio risorse umane (HR) sia così generoso da farvi notare che, in fondo, essendo voi cagionevoli, vi stanno facendo un favore, offrendovi così l'opportunità di curarvi con comodo.
Ma ammettiamo che quella che nei primi giorni vi era sembrata una orrenda accozzaglia di residuati di Milano-da-bere vi sembri alla fine un pezzo di casa vostra.
Avete imparato a diffidare dei fusi orari, soprattutto quando vi siete domandati se a Jakarta ce l'hanno l'ora legale, e usate con disinvoltura certe espressioni tipo "facciamo una call", intendendo che ci si sente per telefono, ma ammucchiati, così ci si dà sulla voce e ci si dice un sacco di sorry. Ma siete i maghi del meeting planning, non essendo gentile tenere uno che sta a Mumbai sveglio in piena notte per fare la call, appunto, e aspettate con pazienza le 3 del pomeriggio in Europa, quando a NY arrivano in ufficio.
Vi siete abituati a ignorare con disinvoltura una serie infinita di accenti anglosassoni incomprensibili, vi domandate da dove accidenti arrivino ma ormai l'accento nasale di scozzesi e irlandesi per voi non ha misteri: continuate a domandarvi che cosa diavolo stiano mai dicendo, ma di sicuro vengono da lì. Non avete battuto ciglio ogni volta che i francesi, alla domanda: possiamo usare l'inglese come lingua di lavoro?, vi hanno risposto che preferiscono decisamente parlare in francese. Parbleu.
Avete lavorato circa come un giapponese, vi fate di fiori di Bach per sopportare tutto questo, prendete aerei come di solito si sale nella metro, e vi addormentate di schianto, all'andata perchè vi siete alzati alle 5, al ritorno perchè siete in tutta onestà uno straccio. Se siete una donna, sul volo delle 8 per Roma siete in compagnia di 200 maschi incravattati che non possono capacitarsi del fatto che non tenete in mano Novella 2000 ma il blackberry, e comunque invariabilmente vi fissano. Al ritorno vi fissano uguale, però sono più sudati.
Sapete cosa comprare in ogni singolo aereoporto, per esempio a Barcellona e Madrid farete spese da Mango, Zara o Massimo Dutti, che voi furbissimi conoscevate dalle vostre amichette spagnole del network ben prima che arrivassero da noi, a Parigi potrete svagarvi a malapena con uno straccio di profumo che il terminal 2F per l'Italia è una tristezza vera, mentre in quella gran figata di Heathrow c'è anche Jo Malone, ma ovviamente non nel vostro terminal.
Alla fine il vostro guardaroba sarà un'accozzaglia di robe strane comprate ovunque, e quindi vi scambieranno sistematicamente per inglese. Vi diranno anche che parlate francese con accento inglese (ma chi? ma dove?).
Avete imparato le regole sui liquidi nel bagaglio a mano a memoria, e lavorate a pieno ritmo mentre sopportate con pazienza ogni genere di ritardo, e anche mentre siete in auto, fermi in divieto di sosta, in un caldo infernale di luglio.
Avete anche intravisto il Colosseo dal taxi, una delle dieci volte in cui siete stati a Roma nelle ultime dieci settimane.
Avete pianto di nostalgia di casa in posti vari la notte, e letto i giornali italiani del giorno prima con vero godimento insieme a colazioni continentali di continenti diversi la mattina.
Amate davvero, ora, le voci nel telefono che aprono vocali e consonanti nella vostra lingua materna, codice segreto per expatriates.
Avete, alla fine, avuto il ruolo che pensavate di sognare, che però da vicino assomiglia più alla bicicletta, quella che adesso pedala. Qualcuno, dal network, vi fa sapere che è ora di mettere giù il business plan.

sabato 7 giugno 2008

La luce di Rembrandt

Il mio primo ricordo compiuto è la luce in un dipinto di Rembrandt, suppongo da qualche parte in Olanda o nelle Fiandre, ma non saprei dire di preciso dove e quando, nè quale fosse il dipinto medesimo.

E' chiaro come il sole, e di sicuro non vi sfugge, che se uno ha come primo ricordo questa roba, di lì in poi l'infanzia è tutta il salita, e infatti.
So dire che la luce entrava dall'alto a sinistra, riempiendo di polvere d'oro tutto il dipinto, e che era bella.

Da qualche parte, qualche anno prima di Rembrandt, in piena Controriforma, luci come spade stavano già nei quadri di un pittore italiano assai disgraziato, bisex, traditore, assassino e fuggiasco, Caravaggio, e infatti quella è roba da maggiorenni, mica da poppanti come la pittura fiamminga.

Dopo Rembrandt, erano entrate nel mio cuore di bimba donne che versano latte da brocche o leggono lettere di fronte a finestre nella luce tersa di Delft, il lucore misterioso di un orecchino di perla, i coniugi Arnolfini che si tengono per mano (lui assomiglia di brutto a Houllebecq, d'altronde i belgi hanno quella faccia lì, non c'è verso).

E Jan Bruegel il vecchio, quello detto "dei velluti", il più straordinario pittore di fiori che sia mai esistito prima di Georgia o'Keeffe, nata circa 450 anni dopo di lui a Chicago, Illinois.
Cose da bimbetti, appunto, come i quartetti di Mozart stanno a Schumann, che si può amare, come Caravaggio, solo se si è sfiorato ad un punto un certo lato dark dell'esistenza, e l'amore o la morte ci hanno attraversati.

Qui a lato vi ho messo il ritratto di Papa Paolo III, dipinto da Tiziano verso la metà del '500, prima di qualsiasi luce intesa come la pensiamo noi nel 21° secolo, e anche come la pensava Caravaggio cinquant'anni più tardi.
Guardate da soli che succede giusto un secolo più tardi: un pittore spagnolo, Diego Rodriguez de Silva y Velazquez, di fatto contemporaneo di Rembrandt, dipinge a Roma un altro papa, Innocenzo X, e l'idea della luce Velazquez ce l'aveva pure lui, eccome, e infatti ha costruito una specie di set tipo quelli delle foto la notte degli Oscar.
Ora, date all' umanità circa cinquecento anni di lento e inesorabile
destrutturalismo, e avrete Bacon.
E' sempre il vecchio Innocenzo X in uno studio del 1965, ma ci trovate dentro i mangiatori di patate, Egon Schiele, e Braque, e Hopper, tutti lì a dipingere sinfonie e requiem.

I quadri, giusto per la precisione, risiedono attualmente:
il Tiziano alla National Gallery di Londra
il Velazquez alla Galleria Doria-Pamphili in Roma
il Bacon a casa di qualcuno, da qualche parte.

giovedì 5 giugno 2008

Il miele dei giorni

Si vede che in questi giorni penso a miele e violini, perchè mi è tornato in mente che uno dei miei sonetti preferiti è uscito dalla penna di una signora che è vissuta tutta la vita in un posto che si chiama Amherst, Massachusetts, per giunta verso la metà dell'800.

Va bene, nessuno si sognerebbe di metterci piede, ad Amherst, ed è ridicolo, ma visse praticamente in una sorta di autoesclusione dal mondo nella sua cameretta di fanciulla e poi exfanciulla, negli ultimi anni pare quasi sempre vestita di bianco.

Lo sguardo da dagherrotipo ovviamente è piuttosto opaco, per intenderci non era una Virginia, che ne poteva sapere del mondo una così?

Niente Bloomsbury, niente Vita (nel senso di Sackville-West), nemmeno uno straccio di follia conclamata a dare grattacapi a un povero marito (mai avuto uno, infatti), niente parenti scapestrati, niente amici dandy e gay (o tutt'e due le cose) alla Lytton Strachey.

Niente di niente, una noia.

Nessuno come questa donna che forse aveva solo una finestra sulla campagna, come una monaca, come una malata, come una santa, ha scritto sonetti che luccicano sensuosi di miele e ambra, tanto da portare nei nostri cuori la luce di certi pomeriggi d'estate che si desidera non finiscano.

Questo e' il sonetto 511 (secondo la catalogazione Harvard) di Emily Dickinson.

Nei pomeriggi d'estate suddetti, in fondo al campo di granturco inquadrato dalla finestra, oltre le tende leggére, laggiù ad Amherst, di certo una capra strimpella tra i grilli e i bombi.

IF you were coming in the fall,

I ’d brush the summer by

With half a smile and half a spurn,

As housewives do a fly.


If I could see you in a year,

I ’d wind the months in balls,

And put them each in separate drawers,

Until their time befalls.


If only centuries delayed,

I ’d count them on my hand,

Subtracting till my fingers dropped

Into Van Diemen’s land.


If certain, when this life was out,

That yours and mine should be,

I ’d toss it yonder like a rind,

And taste eternity.


But now, all ignorant of the length

Of time’s uncertain wing,

It goads me, like the goblin bee,

That will not state its sting.